LINK BARBUTO : Chi era "Girolamo Savonarola"? Ciao Rino risponde

Nacque a Ferrara il 21 settembre 1452, terzogenito del mercante Niccolò di Michele dalla Savonarola e di Elena Bonacolsi (o Bonacossi), discendente di una famiglia aristocratica e benestante di Mantova. I Savonarola, originari di Padova, si erano trasferiti nel 1440 a Ferrara; Dopo la morte del nonno paterno, il padre Niccolò, desiderando avviarlo alla professione medica, gli fece studiare le arti liberali; dapprima appassionato ai Dialoghi di Platone, tanto da scrivervi un commento, poi da lui stesso distrutto, passò presto all'aristotelismo e al tomismo. Dopo aver conseguito il titolo di maestro in arti liberali, intraprese gli studi di medicina che tuttavia abbandonò già a diciotto anni per dedicarsi allo studio della teologia.

Sulla sua vocazione probabilmente influì la percezione di una forte decadenza dei costumi. Infatti in una sua lettera alla famiglia scrisse: «Scelgo la religione perché ho visto l'infinita miseria degli uomini, gli stupri, gli adulteri, le ruberie, la superbia, l'idolatria, il turpiloquio, tutta la violenza di una società che ha perduto ogni capacità di bene... Per poter vivere libero, ho rinunciato ad avere una donna e, per poter vivere in pace, mi sono rifugiato in questo porto della religione».

Il 26 aprile 1475 ricevette l'abito di novizio dal priore fra Giorgio da Vercelli.

Giunto nella Firenze di Lorenzo de' Medici - allora la capitale culturale della penisola o, come si esprimerà lo stesso Girolamo, il cuore d'Italia - nel maggio del 1482, ebbe il compito nel convento di San Marco di esporre le Scritture e di predicare dai pulpiti delle chiese fiorentine: e le sue lezioni conventuali erano esse stesse delle predicazioni.

Nella quaresima del 1484 gli venne assegnato il pulpito di San Lorenzo, la parrocchia dei Medici; non ebbe successo, come testimoniano le cronache del tempo, per la sua pronuncia romagnola che doveva suonare barbara alle orecchie fiorentine e per il modo della sua esposizione: il Savonarola stesso scrisse poi che "io non aveva né voce, né petto, né modo di predicare, anzi era in fastidio a ogni uomo il mio predicare" e ad ascoltare venivano solo "certi uomini semplici e qualche donnicciola".

A Ferrara stette due anni nel monastero di Santa Maria degli Angeli, senza per questo rinunciare a frequenti spostamenti per predicare, prevedendo i prossimi castighi divini, in diverse città, come testimoniò nel processo: "predicai a Brescia ed in molti altri luoghi di Lombardia qualche volta di queste cose", a Modena, a Piacenza, a Mantova; a Brescia, il 30 novembre 1489, previde che "e' padri vedrebbono ammazzare è loro figlioli e con molte ignominie straziare per le vie" e in effetti la città fu saccheggiata dai Francesi nel 1512.

il 29 aprile 1489 Lorenzo de' Medici, quasi certamente per suggerimento di Giovanni Pico della Mirandola, scrisse "al Generale dei Frati Predicatori, che mandi qui frate Hieronymo da Ferrara": e così, nuovamente in cammino, verso il giugno 1490 entrava a Firenze per la Porta di San Gallo, salutato da uno sconosciuto che lo aveva accompagnato fin quasi da Bologna, con le parole: "Fa' che tu facci quello per che tu sei mandato da Dio in Firenze".

Dal 1º agosto 1490 riprese in San Marco le lezioni - ma tutti gli ascoltatori le interpretarono come vere e proprie predicazioni - sul tema dell'Apocalisse e poi anche sulla Prima lettera di Giovanni: formulò la necessità immediata del rinnovamento e della flagellazione della Chiesa e non temette di accusare governanti e prelati - "niente di buono è nella Chiesa... dalla pianta del piede fino alla sommità non è sanità in quella" - ma anche filosofi e letterati, viventi e antichi: ebbe subito il favore dei semplici, dei poveri, degli scontenti e degli oppositori della famiglia de' Medici, tanto da essere chiamato dai suoi contraddittori il predicatore dei disperati.

Lorenzo il Magnifico lo fece ammonire più volte a non tenere simili prediche, tanto che egli stesso si trovò a essere intimamente combattuto sulla necessità di continuare in quel tenore ma, come scrisse, la mattina del 27 aprile 1491, dopo aver sentito una voce dirgli Stolto, non vedi che la volontà di Dio è che tu predichi in questo modo?, salì sul pulpito e fece una terrifica praedicatio. Alle minacce di confino, come fu usato dallo stesso Lorenzo nei confronti di Bernardino da Feltre, rispose di non curarsene, predicendo la prossima morte del Magnifico: "io sono forestiero e lui cittadino e il primo della città; io ho a stare e lui se n'ha a andare: io a stare e non lui".

GIROLAMO SAVONAROLA

Anziché bandirlo, Lorenzo pensò di utilizzare contro il Savonarola l'eloquenza di un famoso agostiniano, fra Mariano della Barba da Genazzano, vecchio predicatore, colto ed elegante, che, infatti il 12 maggio predicò di fronte a un grande concorso di pubblico, fra cui spiccavano Lorenzo, Pico e il Poliziano, sul tema, tratto dagli Atti degli ApostoliNon est vestrum nosse tempora vel momenta, evidentemente polemico nei confronti delle profezie del Savonarola. Ma non ebbe successo, secondo il racconto dei cronisti, e il Savonarola, predicando tre giorni dopo sul medesimo tema, lo rimprovererà mansuetamente di esserglisi rivoltato contro.

In luglio, Girolamo venne eletto priore del convento di San Marco. Naturalmente, contrariamente alla consuetudine dei precedenti priori, non rese omaggio a Lorenzo e non si fece ammansire dai suoi doni e dalle cospicue elemosine; in quell'anno pubblicò il suo primo libro a stampa, il Trattato della vita viduale. La notte del 5 aprile 1492 un fulmine danneggiò la lanterna del Duomo e molti fiorentini interpretano l'accaduto come un cattivo augurio; tre giorni dopo Lorenzo de' Medici morì nella sua villa di Careggi, con il conforto della benedizione del Savonarola, come attestò il Poliziano.

Il 16 novembre 1494 Savonarola era al capezzale dell'amico Giovanni Pico della Mirandola, che ricevette da lui l'abito domenicano e morì il giorno dopo. Nella predica del 23 novembre Savonarola ne fece l'elogio funebre aggiungendo di aver avuto la rivelazione che la sua anima era in Purgatorio.

Il 31 marzo 1495 l'impero, la Spagna, il papa, Venezia e Ludovico il Moro concordarono un'alleanza contro Carlo VIII; fu necessario che vi partecipasse anche Firenze, per impedire al re francese ogni via di fuga in Francia; ma Firenze e il Savonarola erano filofrancesi: occorse screditarlo e abbatterne una volta per tutte l'influenza che esercitava nella città. Carlo VIII, che aveva conquistato senza combattere tutto il Regno di Napoli, vi lasciò a presidio metà delle sue forze armate e col resto delle truppe si affrettò a ritornare in Francia: il primo giugno entrò in Roma da dove Alessandro VI era fuggito a Orvieto e poi a Perugia e il re proseguì la risalita a nord, con grande delusione di Girolamo, che sperava in un rivolgimento nella città del Papato, e gran paura dei fiorentini, che avevano notizie di un accordo tra Piero de' Medici e il re per riprendere Firenze.

Savonarola incontrò il 17 giugno Carlo VIII a Poggibonsi, per avere assicurazioni che Firenze non subisse danni e che i Medici non venissero restaurati; il re, che pensava solo a ritornare in Francia, non ebbe difficoltà a tranquillizzarlo e fra Girolamo poté tornare a Firenze trionfante. Il 7 luglio Carlo VIII forzò a Fornovo il blocco dell'esercito della Lega ed ebbe via libera per la Francia ma la sua spedizione fu in definitiva un fallimento: con la sua assenza, il Regno di Napoli tornò facilmente in possesso di Ferdinando II d'Aragona e Savonarola e la sua Repubblica sembravano ora molto indeboliti.


Il 21 luglio 1495 il papa inviò al Savonarola un Breve, nel quale, dopo aver espresso apprezzamento per l'opera sua nella vigna del Signore, lo invitava a Roma ut quod placitum est Deo melius per te cognoscentes peragamus, affinché egli, il papa, possa far meglio le cose, conosciute direttamente dal frate, che siano gradite a Dio. Naturalmente Savonarola rifiutò, con una lettera di risposta del 31 luglio, di recarsi a Roma, adducendo motivi di salute e promettendo un futuro incontro e per intanto l'invio di un libretto ove il papa avrebbe desunto i suoi proponimenti: è il Compendio di rivelazioni, pubblicato a Firenze il 18 agosto.

Il papa rispose l'8 settembre con un altro Breve nel quale fra Girolamo, accusato di eresia e di false profezie, venne sospeso da ogni incarico e il giudizio a suo carico veniva demandato al vicario generale della Congregazione lombarda, fra Sebastiano Maggi. Savonarola rispose il 30 settembre respingendo tutte le accuse e rifiutando di sottomettersi al vicario della Congregazione, che considerava suo avversario e aspettandosi che fosse il papa stesso ad assolverlo da ogni accusa; l'11 ottobre accusò dal pulpito gli Arrabbiati di aver brigato col papa per distruggerlo. Alessandro VI, con un Breve del 16 ottobre, sospese i precedenti ordini e gli intimò soltanto di astenersi dalle predicazioni, in attesa di future decisioni.


Savonarola obbedì ma non restò inoperoso: il 24 ottobre pubblicò l'Operetta sopra i Dieci Comandamenti e attese alla stesura del De simplicitate christianae vitae. In dicembre apparve la sua Epistola a un amico nella quale respinse le accuse di eresia e difese la riforma politica introdotta a Firenze. La Signoria, intanto, premeva sul Papa perché costui accordasse nuovamente il permesso di predicare a fra Girolamo: il suo ascendente sulla popolazione era indispensabile per ribattere gli attacchi che gli Arrabbiati portavano al governo e allo stesso frate, accusati di essere responsabili della perdita di Pisa.

Il 24 febbraio si scagliò contro la Curia romana: «Noi non diciamo se non cose vere, ma sono li vostri peccati che profetano contra di voi [...] noi conduciamo li uomini alla simplicità e le donne ad onesto vivere, voi li conducete a lussuria e a pompa e a superbia, ché avete guasto il mondo e avete corrotto li uomini nella libidine, le donne alla disonestà, li fanciulli avete condotto alle soddomie e alle spurcizie e fattoli diventare come meretrici». Tali prediche furono raccolte in volume e pubblicate con il titolo Prediche sopra Amos.


Fra i nemici esterni di Firenze e del Savonarola segnatamente non era del resto solo il papa, ma tutti gli aderenti alla Lega antifrancese, come Ludovico il Moro al quale il frate scrisse l'11 aprile 1496 invitandolo «a fare penitentia de li soi peccati, perché il flagello si appropinqua [...] di questo mio dire non ho aspettato né aspetto altro che infamia et opprobrii e persecuzioni e finalmente la morte [...]»

girolamo savonarola racconta

 il prof. Garfagnini

In agosto Alessandro VI gli offrì, tramite il domenicano Lodovico da Valenza - altri intendono che il messo fosse il figlio stesso del papa, Cesare Borgia, cardinale di Valencia - la nomina a cardinale a condizione che avesse ritrattato le precedenti critiche alla Chiesa e se ne fosse astenuto in futuro; fra Girolamo promise di rispondere il giorno dopo, alla predica, che tenne nella Sala del Consiglio, alla presenza della Signoria. Dopo aver ripercorso le vicende degli anni passati, via via accalorandosi, se ne uscì con un grido: «Non voglio cappelli, non voglio mitrie grandi o piccole, voglio quello che hai dato ai tuoi santi: la morte. Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!».

Il 23 agosto 1496 Ludovico il Moro denunciò di aver intercettato due lettere del Savonarola dirette in Francia; una, indirizzata a Carlo VIII, lo sollecitava a venire in Italia mentre l'altra, diretta a un tale Niccolò, lo metteva in guardia contro l'arcivescovo di Aix, ambasciatore francese a Firenze, sostenendo la sua infedeltà al Re e l'atteggiamento ostile a Firenze. Sembra che quelle lettere siano dei falsi e che l'iniziativa del Moro tendesse a rompere l'alleanza franco-fiorentina e a screditare fra Girolamo, che negò di averle mai scritte.

Il 7 febbraio del 1497 Savonarola organizzò un falò delle vanità a Firenze, nel quale vennero dati alle fiamme molti oggetti d'arte, dipinti dal contenuto paganeggiante, gioielli, suppellettili preziose, vestiti lussuosi, con incalcolabile danno per l'arte e la cultura fiorentina rinascimentale.

Fu ufficialmente scomunicato da papa Alessandro VI il 12 maggio del 1497, ma in anni recenti è stato dimostrato, sia da un carteggio personale tra il frate e il papa sia da carteggi tra il papa e altre personalità, che quella scomunica era falsa. Fu emanata dal cardinale arcivescovo di Perugia Juan López a nome del papa, su istigazione di Cesare Borgia, che assoldò un falsario per creare una finta scomunica e distruggere il frate.

La prima predica di Savonarola dopo la scomunica esordì fingendo un dialogo con un interlocutore, che gli rimproverava di predicare malgrado fosse scomunicato: «La hai tu letta questa escommunica? Chi l'ha mandata? Ma poniamo che per caso che così fussi, non ti ricordi tu che io ti dissi che ancora che la venisse, non varrebbe nulla? [...] non vi maravigliate delle persecuzioni nostre, non vi smarrite voi buoni, ché questo è il fine dei profeti: questo è il fine e il guadagno nostro in questo mondo». Ironia della sorte, quella scomunica davvero non valeva nulla, ma non per i motivi che pensava il frate, a meno che Savonarola non fosse venuto a conoscenza della sua vera origine senza però dire la verità al riguardo.



Savonarola continuò la sua campagna contro i vizi della Chiesa, se possibile con ancora più violenza, creandosi numerosi nemici, ma anche nuovi estimatori, perfino fuori Firenze: proprio a questo periodo risale una breve corrispondenza epistolare con Caterina Sforza, signora di Imola e Forlì, che gli aveva chiesto consiglio spirituale. La Repubblica fiorentina in un primo momento lo sostenne, ma poi, per timore dell'interdizione papale e per la diminuzione del prestigio del frate, gli tolse l'appoggio. Fu preparata anche una prova del fuoco a cui era stato sfidato da un francescano suo rivale, che però non avvenne a causa di una forte pioggia che spense le fiamme.

Venutogli meno l'appoggio francese, fu messo in minoranza rispetto al risorto partito dei Medici che nel 1498 lo fece arrestare e processare per eresia. La cattura del frate, barricatosi coi confratelli in San Marco, fu particolarmente cruenta: la domenica degli Ulivi il convento fu assediato dai "palleschi", i fautori del partito mediceo e antisavonaroliano, mentre la campana "Piagnona" suonava invano a martello; la porta del convento fu messa a fuoco e il convento preso d'assalto per tutta la notte, con scontri tra i frati e gli assalitori. In piena notte Savonarola fu catturato e trascinato fuori dal convento con fra Domenico Buonvicini, attraversando al lume delle torce via Larga verso palazzo Vecchio, dove entrò per il portello. Nel chinarsi un armigero gli calciò il fondo schiena schernendolo: "Ve' dove gli ha la profezia!"

Fu rinchiuso nell'"Alberghetto", la cella nella torre di Arnolfo e subì interrogatori e torture. Il processo fu palesemente manipolato: Savonarola subì la tortura della corda, quella del fuoco sotto i piedi e fu quindi posto per un'intera giornata sul cavalletto, riportando lussazioni su tutto il corpo. Alla fine venne condannato a essere bruciato in piazza della Signoria con due suoi confratelli, Domenico Buonvicini, da Pescia, e Silvestro Maruffi, da Firenze.

All'alba del 23 maggio 1498, alla vigilia dell'Ascensione, dopo aver passato la notte di conforto con i Battuti Neri della Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio, i tre religiosi, ascoltata la messa nella cappella dei Priori nel palazzo della Signoria, furono condotti sull'arengario del palazzo stesso dove subirono la degradazione da parte del Tribunale del Vescovo.


ascesa e caduta del 

Profeta del Rinascimento

Dopo la degradazione e la rimozione dell'abito domenicano i tre frati furono avviati verso il patibolo, innalzato nei pressi dove poi sorgerà la fontana del Nettuno e collegato all'arengario del palazzo da una passerella alta quasi due metri da terra. La forca, alta cinque metri, si ergeva su una catasta di legna e scope cosparse di polvere da sparo per bombarde. Fanciulli accovacciati sotto la passerella, come accadeva di frequente durante le esecuzioni, ferivano le piante dei piedi al passare dei condannati con stecchi di legno appuntiti. Vestito di una semplice tunica di lana bianca Savonarola fu impiccato dopo fra Silvestro e fra Domenico. Fra le urla della folla fu appiccato il fuoco a quella catasta che in breve fiammeggiò violentemente, bruciando i corpi oramai senza vita degli impiccati. Nel bruciare un braccio del Savonarola si staccò, e la mano destra parve alzarsi con due dita dritte, come se volesse "benedire l'ingrato popolo fiorentino"[

Le ceneri dei tre frati, del palco e d'ogni cosa arsa furono portate via con delle carrette e gettate in Arno dal Ponte Vecchio, anche per evitare che venissero sottratte e fatte oggetto di venerazione da parte dei molti seguaci del Savonarola mescolati fra la folla. Dice infatti il Bargellini che "ci furono gentildonne, vestite da serve, che vennero sulla piazza con vasi di rame a raccogliere la cenere calda, dicendo di volerla usare per il loro bucato". In effetti fu rinvenuto un dito bruciacchiato e il collare in ferro che aveva sorretto il corpo, che da allora sono conservati nel monastero di San Vincenzo a Prato.

 La mattina dopo, come già detto, il luogo dove avvenne l'esecuzione apparve tutto coperto di fiori, di foglie di palma e di petali di rose. Nottetempo, mani pietose avevano così voluto rendere omaggio alla memoria dell'ascetico predicatore, dando inizio alla tradizione che dura tuttora. 

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